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di Saverio Chiappa

Per effettuare una adeguata comunicazione in ambito green le imprese dovrebbero essere trasparenti, riportare solo informazioni documentabili e affidarsi a procedure interne per limitare gli errori.  Un po’ di prudenza e buon senso completano il quadro di un settore e di una normativa ancora in evoluzione. Secondo Massimo Giordano, avvocato cassazionista e docente di “Diritto e tecniche di comunicazione” all’Università del Piemonte Orientale, questa è la soluzione migliore per evitare di ritrovarsi sospesi tra green claim, greenwashing o greenhushing.

La differenza tra questi termini è sostanziale e la spiega lo stesso Giordano, esperto in materia, in un’intervista rilasciata a ImprontaZero.

La premessa da tenere in mente è che “green claim e greenwashing sono due facce della stessa medaglia”. Dopodiché, per green claim si intende “la comunicazione commerciale/pubblicità di natura green, che fa sì che ci si appropri di pregi di natura ambientale”, mentre “il greenwashing è quando lo si fa ingannando: è l’ingannevolezza che fa divenire un green claim greenwashing”. “Non è detto che nel greenwashing ci sia malafede. Sicuramente alcune volte c’è, ma non necessariamente”, sintetizza Giordano, che dal 2012 è founding partner dello studio legale Novaius di Novara.

Il tema della sostenibilità è delicato e, talvolta, il timore di sbagliare conduce all’inazione. In questo caso si scivola verso il terzo fenomeno, quello del “greenhushing”, ovvero un “silenzio”, una “quiete verde”.  “Per la paura di incorrere in guai, molte aziende non fanno green marketing. È il fenomeno del greenhushing”, afferma Giordano, che negli anni ha insegnato Diritto di Facebook, Diritto di Google, Diritto degli influencer avvicinandosi alle nuove forme di comunicazione, tra cui il green marketing. “Nel contempo, avevo aziende/clienti che mi chiedevano consigli e pertanto ho fatto diventare quest’argomento uno dei miei ambiti di specializzazione”, spiega ricostruendo le tappe del suo percorso.

Per le aziende, ovviamente, non è solo una questione di stile comunicativo. In ballo c’è la reputazione, una normativa da rispettare ed eventualmente sanzioni pecuniarie e provvedimenti inibitori da affrontare. Se invece si agisce in maniera corretta, si può ottenere un vantaggio competitivo non trascurabile. I consigli di Giordano sono molteplici, ma il faro da seguire è sempre uno: “Quando sono trasparente non sbaglio mai”.  Dal punto di vista operativo si può fare molto a patto che si sia disposti a investire seriamente in procedure e personale. “La cosa che spesso viene trascurata è la ‘documentabilità’, la capacità di saper documentare ciò che dico. Meglio formare una risorsa interna che tenga sotto controllo queste cose piuttosto che poi essere sanzionato e dover pagare molto di più”, porta come esempio l’avvocato.

Ma vediamo più nel dettaglio la spiegazione di Giordano su cosa rende i green claim corretti e leciti. Innanzitutto, l’informazione deve essere chiara e comprensibile. Inoltre, i claim devono essere veri, cioè indicare circostanze veritiere, mentre si devono evitare affermazioni vaghe o generiche (ad esempio, “sostenibile”, “ecologico”, prive di reale “impatto”). Sarebbe opportuno poi indicare l’ambito a cui le informazioni si riferiscono, se il claim copre l’intero prodotto/ciclo di vita oppure una sua parte, e non fare confusione tra indicazioni obbligatorie per legge e quelle facoltative.

Giordano, nelle sue lezioni, ricorda anche un altro pilastro dei green claim: serve avere prove a sostegno di quanto affermato. Devono essere scientifiche e verificabili. “Termini come ‘ecosostenibile’, ‘amico dell’ambiente’, ‘prodotto a impatto 0’ non si possono usare, ma tutti i giorni li vediamo. Il green claim per non sfociare in greenwashing e quindi in comunicazione commerciale ingannevole deve essere trasparente, chiaro, non vago, inequivoco e verificabile. ‘Biodegradabile’ non basta, è troppo generico. Per utilizzare l’espressione devi mettere il sottotitolo con le specifiche. Bisogna specificare e portare prove, certificazioni. Non è necessaria la malafede, a volte basta l’errore”, chiarisce l’avvocato.

Un altro esempio aiuta a capire quanto il confine possa essere labile tra green claim e greenwashing se non si stabiliscono procedure interne: “Se uno comunica pregi green veri del proprio prodotto, ma non specifica che essi non riguardano l’intero ciclo di vita del prodotto, sta facendo greenwashing”.

Fare greenwashing, dal punto di vista giuridico, significa porsi in violazione di numerose norme che rientrano nel Codice penale, nel Codice del consumo, nel Codice civile, nel Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale e in quello della Proprietà industriale. La violazione delle norme può portare, come detto, a sanzioni da parte dell’Antitrust, a provvedimenti da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria civile, ma anche l’apertura di un procedimento penale o sanzioni da parte del Giurì dell’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria. Però, come sottolinea l’avvocato, l’impatto maggiore di questi procedimenti è soprattutto quello sulla credibilità dei soggetti coinvolti: “il danno più grave che può derivare da una comunicazione pubblicitaria non corretta e non veritiera è spesso però il danno reputazionale, cioè il danno all’immagine, all’onore e al decoro professionale dell’azienda”.

Inoltre, i professionisti del settore devono tenersi aggiornati sulla normativa poiché “nell’ultimo periodo si è cercato di stringere i bulloni su questo tema” anche se “già prima c’era una normativa contro l’inganno nel green marketing” seppur “generalista”.  Giordano richiama l’approvazione a maggio del 2023, da parte del Parlamento europeo, della proposta di direttiva di modifica alle “direttive 2005/29/CE (relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori) e 2011/83/UE (sui diritti dei consumatori)” per quanto riguarda “la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione”.

Nei “considerando” della proposta di direttiva vi sono varie indicazioni sulla materia: “Adesso è anche ammesso una sorta di green marketing prospettico: io azienda tra tot anni completerò il mio percorso di transizione ecologica. Lo posso dire? Sì, se documento quali sono gli step, se sono preciso e non vago. Tutto deve essere documentato in modo chiaro, trasparente, magari con un soggetto che monitora lo stato di avanzamento. Se le cose si fanno bene e con serietà, le cose si possono dire”, puntualizza l’esperto.

Infine, sul tavolo, c’è il rischio non indifferente di incorrere nella concorrenza sleale se si effettua una comunicazione ingannevole in ambito green. “Il primo caso – ricorda l’avvocato – è stato quello del Tribunale di Gorizia che ha emesso un provvedimento d’urgenza per un’impresa che vendeva tessuti comunicando delle proprie caratteristiche green che poi non è stata in grado di dimostrare”. E dunque una concorrente le ha fatto causa vincendo con un provvedimento d’urgenza. Risultato: ha ottenuto l’inibitoria, l’ordine per pubblicare il provvedimento per 6 mesi sul sito della concorrente, e l’ordine a che la concorrente invii a tutti i clienti di tutte e due le aziende il provvedimento del giudice. “E non si ferma qui: fa causa per risarcimento danni”, conclude Giordano dando un’idea delle possibili conseguenze di una comunicazione ingannevole o superficiale.

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