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di Angelo Fasulo

Le imprese dovrebbero mettere i dati sulla sostenibilità sotto una cupola di vetro

Abbiamo incontrato Alberto Pirni, professore associato di Filosofia morale presso l’Istituto di Diritto, Politica e Sviluppo della Scuola Superiore Sant’Anna – Pisa e coordinatore dell’Area di Ricerca in “Ethics and Global Challenges”.

Professor Pirni, possiamo definire la sostenibilità come un costo aziendale?

In prima approssimazione la sostenibilità potrebbe essere definita un costo, se si pensa che la sua piena implementazione comporta un’analisi e variazione potenzialmente rilevante dei processi e dei prodotti di un’azienda. Ma essa è ormai largamente percepita come molto di più: è sicuramente un’opportunità e insieme una necessità, soprattutto in un contesto sociale ed economico in cui la sostenibilità di un prodotto è un requisito richiesto e atteso per entrare in una fascia di mercato in continua crescita come quella dei consumatori responsabili. In ultimo, ma certo non da ultimo, sostenibilità è un dovere civico, pensando che, prima di occupare ogni altro ruolo, l’imprenditore è un cittadino che – come ciascuno di noi – intende contribuire a costruire il miglior futuro del luogo e della comunità nella quale opera e che – come e con i suoi pari – pensa al miglior futuro dei suoi collaboratori.

Possiamo affermare che una delle principali sfide per le imprese sarà quella di creare un autentico rapporto di fiducia con il consumatore?

Prima di rispondere, farei un passo indietro. Bisogna prendere in considerazione due profili: quello dell’emittente e quello del ricevente, ovvero di chi genera – o ritiene di generare – fiducia e di chi la riceve – o dovrebbe esserne il destinatario. Il primo ha la capacità di trasmettere un messaggio attraverso i propri prodotti, che intrinsecamente rappresentano i valori aziendali e il proprio impatto sostenibile. Ma il contesto in cui siamo immersi è purtroppo ancora per molti versi quello di una “retorica del greenwashing”, all’interno della quale è difficile individuare il prodotto che rappresenta integralmente i valori della sostenibilità. Si genera da qui la difficoltà del ricevente di quel messaggio e della correlativa richiesta di fiducia. Come suggeriva un importante filosofo novecentesco, anche in questo contesto, “per fare un passo avanti, bisogna fare un passo indietro”. In altri termini, dobbiamo avvertire la necessità di abbandonare, di arretrare rispetto alla “retorica del greenwashing” per “fare un passo avanti”, ovvero passare a quella che vorrei qualificare come la “dialettica della sostenibilità”.

Il compito del ricevente diviene così quello di riscoprire il significato di due concetti, molto antichi e al contempo a mio avviso perennemente importanti, tratti dalla miglior stagione della filosofia greca, quella platonica e aristotelica. Mi riferisco ai concetti di retorica e dialettica

Volendo qui limitarci ad un inquadramento di necessità minimale, potremmo ricordare che il discrimine più rilevante tra i due concetti è il rapporto di entrambi con un terzo concetto, quello di verità. La retorica si pone programmaticamente fuori dalla ricerca della verità. Retorica indica l’arte del bel parlare, ovvero la capacità e la tecnica di creare un discorso capace di convincere, l’abilità di captare l’attenzione e l’interesse del destinatario del messaggio – nel nostro caso il consumatore – e di condurlo alla conclusione che il relatore (il retore) aveva previsto e intendeva prospettare ai suoi ascoltatori. Retorica identificava la tecnica di saper trasmettere un contenuto in grado di persuadere il destinatario attraverso l’uso dei giusti toni e del più gradevole, appropriato e atteso lessico, presentando un discorso non solo ricco, ma certo efficace. È questo quel discorso che dovrebbe generare nella mente del consumatore l’immagine di un prodotto sostenibile e innovativo, anche se poi tale immagine si scopre rimandare ed essere collegata ad un prodotto molto meno “sostenibile”, pensando all’intera catena di produzione e commercializzazione che lo accompagna.

In questo modo, la tecnica del discorso può legittimare qualsiasi contenuto che sia sostenuto da un interesse (anche economico) forte.

La dialettica si propone di realizzare un obiettivo del tutto differente. Essa coincide con la ricerca della verità, che è perseguita attraverso la migliore fondazione del proprio argomento che il filosofo sa proporre. La dialettica è la volontà di costruire un discorso capace di spiegare e dimostrare situazioni autentiche e veritiere, di creare un contenuto che può risultare più “povero”, ovvero meno “luccicante” e stupefacente, ma che invece costruisce un’immagine più conforme alla realtà, in quanto si basa su premesse trasparenti e condivise, informazioni verificabili, conclusioni logicamente provate.

Se quindi alla retorica possiamo chiedere l’elaborazione di un ottimo discorso, spesso pronto a “colorare” il contenuto più che a riportarci alla pienezza del suo significato più veritiero, dall’esercizio della dialettica dobbiamo attenderci un contenuto solido dal punto di vista dell’affidabilità e della corrispondenza al dato reale e verificabile.

Possiamo sostenere che grazie a questa rivoluzione dalla retorica alla dialettica abbiamo generato un impatto sul marketing e la comunicazione dei prodotti?

Passare dalla retorica alla dialettica significa sicuramente innovare il marketing della sostenibilità. Questo perché la dialettica della sostenibilità implica un anelito alla verifica da parte del consumatore, che a sua volta comporta una forma di accertamento della congruenza tra i dati presentati da un’azienda con la realtà del prodotto che ha di fronte a sé.

Spesso pensiamo che la verifica dei processi debba essere affidata esclusivamente agli enti pubblici agli organi di controllo, insomma a qualche entità sovraordinata al singolo cittadino. Sarebbe invece molto interessante comprendere più diffusamente l’impegno della società civile nell’analizzare più attentamente le attività delle aziende, che dovrebbero essere maggiormente pronte a rendere disponibili i dati da verificare. Utopisticamente bisogna immaginare questi dati come raccolti e presentati all’interno di una cupola di vetro, dove la sicurezza incontra la trasparenza. Solo così si crea e sviluppa una nuova idea di corporate social responsibility. Per arrivare a questo risultato le aziende e le università dovranno aumentare la loro interazione e collaborazione.

Oggi com’è strutturato il dialogo tra impresa e mondo accademico e in che modo quest’ultimo può supportare le attività produttive verso una transizione sostenibile?

Quando le aziende guardano all’università, si rivolgono solitamente ai dipartimenti di economia e management, ovvero a chi può produrre innovazione di prodotto, spesso identificati come i dipartimenti di area tecnologica. Si sviluppa così un dialogo certo proficuo, ma che va inteso come dialogo tra interlocutori che parlano lo stesso linguaggio. Naturalmente, ciò ha generato e continua a generare circuiti di “ricerca e sviluppo” di grande interesse ed efficacia. Tuttavia, mi chiedo sempre più spesso se la complessità delle sfide di sostenibilità che abbiamo oggi di fronte – e delle correlative sfide di innovazione che devono accompagnarle – non richiedano l’esplorazione anche di direttrici nuove e un poco differenti dalle vie più consuete. In altri termini, mi chiedo se anche dai Dipartimenti di filosofia o dalle ricerche di etica possa giungere qualche contributo innovativo, da questo punto di vista.

Un livello ulteriore, lungo la strada dell’innovazione, risiede secondo me non solo dal “cambiare discorso”, ma anche – e soprattutto – dal “cambiare interlocutore”, ovvero integrare il dialogo con nuovi contributi, magari provenienti da chi in avvio non parla lo stesso linguaggio. Sicuramente l’impegno e la forza di innovazione che l’università può esprimere, da questo punto di vista, sono davvero molteplici. Ad esempio, sono tante le risposte – o anche le nuove domande – che possono offrire i centri di ricerca in etica pubblica o in etica applicata. L’etica, infatti, descrive e orienta i comportamenti che colgono la volontà di ognuno di agire contemperando la ricerca del bene proprio e altrui nel modo migliore possibile, e insegna ad organizzare al meglio la convivenza tra i soggetti coinvolti a tutti i possibili livelli e contesti di socialità.

Un primo modo per comprendere come l’etica può contribuire a supportare le aziende rimanda al concetto stesso dello scambio commerciale. Si può pensare che lo scambio commerciale sia il tentativo di vendere un prodotto per raggiungere un risultato (economico, per il venditore, di soddisfazione di un bisogno, per il consumatore). Tale scambio si realizza tramite la creazione di un dialogo, che porterà non solo alla vendita del prodotto, ma anche – e soprattutto, dal punto di vista etico – alla più consapevole individuazione e condivisione dei valori che l’azienda ha voluto esprimere nel crearlo e il consumatore ha inteso accogliere, acquistandolo. Si torna così alla dinamica della fiducia dalla quale abbiamo iniziato la nostra conversazione. L’etica e la dialettica della sostenibilità possono supportare le imprese nel creare coerenza in questo dialogo, dove tutti i passaggi vengono svolti in maniera coerente, argomentativamente solida e verificabile. Comprendere i valori in un senso non superficiale, comprendere come comunicarli non retoricamente, renderli tema e interesse autenticamente condiviso nel rapporto tra produzione e consumo: sono queste alcune delle nuove frontiere della sostenibilità che la ricerca in etica si propone di sviluppare.

Il tessuto produttivo italiano è costituito da piccole e medie imprese; quali sono i fattori che un imprenditore italiano deve prendere in considerazione per iniziare a pianificare all’interno della propria azienda la transizione ecologica?

Come ampiamente noto, la dimensione e la capillarità in Italia delle PMI rappresenta un punto di forza e di debolezza allo stesso tempo. Quest’ultima può risiedere nella mancanza di risorse umane ed economiche interne per poter investire in innovazione e sostenibilità. È però questa una debolezza che può essere in parte emendata ed alleggerita dalle più strutturate forme rappresentative di collaborazione inter-aziendale, ossia le associazioni di categoria, ma anche da politiche di fiscalità pubblica che denotino una maggiore attenzione al ruolo che le PMI possono svolgere per contribuire, in forme certo più capillari, alla sostenibilità nel loro contesto territoriale di riferimento.

C’è un aspetto, però che credo debba essere intrapreso con maggior forza e convinzione, anche dalle PMI italiane: dimostrare coraggio nel rendersi un caso di studio per il mondo della ricerca, non aver timore di essere, per così dire, osservate dall’interno, farsi supportare durante tutte le fasi ideative e di pianificazione dell’innovazione verso la sostenibilità. Si tratta, da parte di questo importantissimo settore della nostra economia nazionale, di avere la disponibilità ad inaugurare una nuova stagione di dialogo con altre realtà aziendali omologhe – che stanno del pari realizzando percorsi di innovazione sostenibile – e con le più attente linee di ricerca universitaria – che certo possono accompagnarle in tutto ciò. Credo si tratti di un impegno che non è oggi più possibile rinviare.

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